lunedì 31 maggio 2010

Mail da un amico IV

[23 maggio…] ti preoccupi troppo per questo povero scozzese rimbambito. La tua ultima mail mi ha trasmesso momenti alterni di apprensione e di fiducia ma ho concluso che nessuno dei provvedimenti che mi hai suggerito è necessario. Credo che il mio ospite [è sparito l’aggettivo sgradito] stia bene dove sta, in fondo costa meno di una donna delle pulizie ed è più efficiente. Ti sembrerà strano ma ti giuro che non avevo collegato il suo arrivo con il ritrovamento del monile e, dopo aver reperito in biblioteca e letto quel capitolo dei Mabinogi che mi hai suggerito, sono giunto alla tua medesima conclusione; tuttavia sarò estremamente franco: non mi disfarò del medaglione poiché non condivido il tuo decadente disfattismo continentale e sono convinto di riuscire a controllare il mio ospite (anche la rabbia per quello che ha fatto a Nessie è sbollita, in fondo quanto successo è colpa mia, che non sono stato capace di comprendere il mio cane e l’intruso).

A proposito, non gli ho ancora dato un nome. Credo che sarebbe opportuno dopo il rapporto che abbiamo instaurato.

So che farai delle rimostranze circa la mia decisione di tenerlo (e mi aspetto una mail infuocata da parte tua) ma nei prossimi giorni proverò ad addestrarlo. Userò il sistema che ho applicato nell’istruzione di Nessie; il fatto che non riesca a vedere il mio ospite è un grosso limite ma voglio provare a comunicare e sto ripassando l’antico dialetto gaelico che si parlava da queste parti. Se riesco a pilotare in modo opportuno i suoi poteri, potrei affidargli compiti più complessi che pulire una stanza.

Prima di maledire i miei malsani e perversi deliri, considera che posso dialogare con un essere millenario: sei uno scrittore, dannazione! Il mio ospite sa scrivere ed è probabile che avrà un sacco di storie da raccontare (non dirmi che a questo non avevi pensato). Per ora ho disposto in salotto e nelle camere alcune piccoli compiti per lui, voglio vedere se li porterà a termine. Anzi, proprio ora, e nella stanza dove avevate dormito voi, cominciano i rumori.

Ti terrò informato, lo prometto.

mercoledì 26 maggio 2010

Lettera da un amico - parte III

[…] mi perdonerai il lungo silenzio ma nelle Regie Galere di Sua Maestà non hanno ancora attivato il wi-fi. Hai letto bene caro amico, è lì che ho passato le ultime due settimane. Il 7 maggio mi hanno messo in gattabuia e il giorno successivo mi hanno trasferito a Glasgow, nel carcere psichiatrico. Come avrai intuito leggendo la presente, o hanno attivato il wi-fi, oppure mi hanno rilasciato. Per mia fortuna è la seconda.

Facciamo un salto nel passato e torniamo al 5 maggio e allo scricchiolio delle assi, al primo piano: in quel frangente ho smesso di scriverti, ho preso la spada e sono uscito per vendicare Nessie. Mi sono mosso nel silenzio più totale, senza accendere la luce, e solo adesso mi rendo conto di come sia stato ingenuo perché il mio sgradito ospite non ha mai avuto bisogno della luce per agire. Quando sono arrivato di fronte alla scala e l’ho sentita scricchiolare, ho atteso perché il mio sgradito ospite stava scendendo.

Tremavo, anzi, me la stavo proprio facendo sotto.

I gradini cigolavano uno a uno e sentivo i passi che indugiavano sulla moquette verde; a ogni passo del mio sgradito ospite cambiavo impugnatura alla spada, che pareva animata di vita propria. Quando l’intruso [Donald ha sempre usato “it” ma ho preferito sostituire il sostantivo con un altro più appropriato] arrivò al pianerottolo avrei dovuto trovarmelo davanti ma evidentemente si fermò, perché non sentii scricchiolii per secondi interminabili. Poi il cigolio riprese ma la penombra lo nascondeva e il mio sgradito ospite deve aver fatto tre o quattro gradini quando decisi di accendere la luce per sfidarlo.

In cuor mio speravo che un disgraziato si introducesse in casa la notte e il mio dito rimase indeciso sull’interruttore mentre pensavo che avrei anche potuto scoprire un mostro. Quando la luce irrorò il corridoio, sulle scale non c’era nulla. O meglio, c’era, ma non potevo vederlo. C’era, perché ho percepito i suoi passi che si avvicinavano e poi ho sentito il suo odore. Deve essere stato quello che mi ha spinto ad attaccare. Deve essere stata la paura.

Dici di essere uno scrittore: trova un modo migliore per dire che l’intruso puzzava di melma e morte e che il suo fetore era antico. Era tipo l’afrore dei cimiteri quando i fuochi fatui si destano e danzano, era un odore di morte viscida, umida e lontana generazioni.

La spada si è incastrata nei pilastri della balaustra ma non l’ho colpito. L’odore mi è sfilato accanto senza che potessi far nulla. Ho lasciato la spada mentre quella cosa si avvicinava alle ciotole e sono rimasto pietrificato mentre il rumore di mascelle che masticavano mi ha terrorizzato al punto da farmi perdere molti dei pochi anni di vita che mi rimangono. Poi ho sentito lappare dalla scodella dell’acqua e dev’essere stato sul rutto che ne è seguito che sono svenuto.

Mi sono destato all’alba, ho spento la luce delle scale, ho recuperato la spada e ho cercato in casa tracce dell’intruso. Non ho trovato nulla, niente di niente. In compenso i pavimenti erano puliti, la cucina riordinata e in sala c’era un profumo che non sentivo da quando mia moglie faceva le pulizie. Avrei dovuto scriverti quella sera ma ho preferito attendere un giorno ancora, e così la notte tra il 5 e il 6 maggio ho posizionato altro cibo e acqua nelle ciotole che furono di Nessie e ho aspettato. L’attesa è stata tanto lunga che il sonno ha preso il sopravvento e mi sono svegliato soltanto a notte inoltrata, e per via delle sirene dell’ambulanza e della polizia che chiassavano due case dietro la mia.

Non era ancora giunta mattina quando sono stato interrogato dalla polizia; lo hanno chiamato “colloquio informale” [le virgolette sono di Donald] e mi hanno chiesto dove fossi stato quella notte, che cosa avessi fatto e se avessi notato qualcosa di strano nel vicinato. Ho detto la verità, ovvero che ero in casa a riposare, da solo, come sempre. I poliziotti mi notificarono che non avevo un alibi per la morte della strega indiana.

Ricordi la moglie di Jeffery, quella che testimoniò di avermi visto uscire armato quando l’intruso ha ucciso Nessie? A stare alle dichiarazioni di Jeffery, sua moglie è stata ammazzata mentre si era alzata per controllare un rumore in giardino. Ammazzata tuttavia non è la parola migliore per descrivere ciò che le è accaduto. E non lo farò, ovvero non racconterò ciò che le è stato fatto: sappi soltanto che la morte di Nessie dev’essere stata meno dolorosa.

Ci ho ripensato molto, mentre preparavo del macinato fresco per il mio sgradito ospite, e temevo che la polizia sospettasse di me. Ora mi è evidente come l’asettica poliziotta bionda credesse che fossi stato io a mangiare metà della moglie di Jefferey. E a tratti anch’io sospetto di me stesso: ho il terrore che una maledizione mi abbia colpito, e che la mia anima vaghi altrove mentre il mio corpo compie mostruosità.

In ogni modo, da quando l’intruso ha fatto fuori quell’impicciona antipatica, mi risulta un poco più simpatico. La notte dopo l’omicidio avevo preso dell’ottima carne per lui e sperato che sistemasse il garage, per l’occasione avevo spostato l’auto nel vialetto.

[…] Il sette mattina quattro amici della biondina hanno suonato al campanello, sono entrati gentilmente in casa e mi hanno ammanettato. In centrale la biondina ha formulato l’accusa di omicidio della strega indiana e mi hanno fornito un avvocato d’ufficio per assistermi durante l’interrogatorio.

Ho raccontato tutto quello che mi era successo e forse è questo il motivo per il quale mi hanno internato a Glasgow. Ho passato due settimane di inferno, non sono nemmeno riuscito a parlare o a vedere mio figlio. Mi hanno somministrato intrugli indegni di qualsiasi dittatura e mi hanno sottoposto a una serie esami che terrò per me in virtù del (poco) amore che nutro ancora verso il mio paese (in ogni modo ne sono uscito con le mie gambe, non come in certe prigioni del vostro paese). Durante il mio soggiorno forzato a Glasgow, ho avuto l’occasione di parlare con i preti di ogni religione, con psicologi, con cialtroni e con millantatori che vantavano addirittura di aiutarmi con le loro arti magiche (credo sia stato tutto un trucco per capire qualcosa sulla mia sanità mentale). L’ultimo che ha esaminato il mio caso era una tizio di colore con la testa rasata e gli occhialini ovali, simili ai tuoi: abbiamo fatto una bella chiacchierata la sera prima che mi rilasciassero. Era un tipo in gamba, uno con le palle, ha fatto un’analisi scientifica dei fatti che mi ha ricordato certe serie televisive […], hai presente? Ebbene, era riuscito a convincermi che fossi un assassino: sosteneva che avessi creato una sorta di simulacro sul quale avrei proiettato le mie paure e scaricato la mia rabbia repressa, negandola e trasferendola su uno sgradito ospite che soltanto la mia mente era in grado di vedere. Non ha usato proprio le parole con cui ti ho descritto la sua diagnosi, ma ti ripeto che è stato tanto convincente da farmi restare sveglio una notte intera a piangere per le mostruosità che avevo commesso: ti giuro che se avessi avuto qualcosa, qualsiasi cosa a mia disposizione, l’avrei usata per suicidarmi.

La mattina del quattordicesimo giorno di detenzione mio figlio è venuto a prendermi dopo che mi hanno rilasciato, mi ha riportato a Fort William ed è tornato a Glasgow per passare il week-end con la fidanzata. Ti chiederai come sia possibile un epilogo simile: ebbene, a quanto ho saputo, la notte del 20 maggio, il mio simulacro, o meglio l’intruso, si sarebbe intrufolato in casa della biondina, l’avrebbe divorata completamente e avrebbe lasciato le ossa ammucchiate dentro la tazza del cesso.

Ho scritto questo resoconto non appena ho potuto ma ora dovrai perdonarmi perché i negozi chiuderanno a breve e devo comprare un bel taglio di manzo per evitare che il mio sgradito ospite torni a sfamarsi a modo suo.

mercoledì 12 maggio 2010

Lettera da un amico - parte II

[…] Ho passato la mattina del tre maggio a riflettere. Stavo coricato sulla poltrona e guardavo la pioggia scrosciante che batteva il vetro e la strada; Lock Linnhe era schiacciato da nubi di metallo che scendevano dalle montagne cariche di un freddo anormale e malvagio. È arrivata in Italia l’eruzione islandese? Qui lo stramaledetto vichingo [è il soprannome affibbiato al vulcano da Donald, o a Fort William] ha riportato l’inverno. […] Scusami se non mi sono fatto sentire prima ma quanto accaduto dopo quella mattina mi ha provato, mi ha invecchiato, mi ha divorato. Ebbene, devi sapere che non ho dato ascolto alle richieste della cosa. Dio solo sa che cosa mi sia passato per la testa quando ho preso questa decisione; resta il fatto che, invece, avrei dovuto accettarle.

Procedo con ordine o penserai che sono diventato più pazzo di quanto io stesso non creda. Nel pomeriggio del 3 maggio, tormentato dalle paure e condizionato da un tempo infame, ho seguito il tuo consiglio e sono andato alla polizia, che ha effettuato un sopralluogo. I vicini si sono riuniti fuori dalla casa, preoccupati (non per me, ci scommetto, ma dall’idea che ci fosse qualcuno tanto disperato da profanare un B&B per commettere un furto). La poliziotta che mi accompagnava aveva l’aspetto di una persona in gamba, portava una chioma di steli biondi raccolti a coda e aveva due occhi chiari e uno sguardo asettico. Ha esaminato la porta della cucina con dei guanti da chirurgo, distribuendo polvere tutt’intorno, ma non ha trovato alcuna impronta oltre le mie e credo che abbia sospettato che sia stato io a scorticare la porta.

Avrei fatto bene a non ascoltarti e a non rivolgermi alla polizia: hai una visione del mondo anglosassone un po’ distorta dalle pietose notizie che mandi dall’Italia. Anche qui le forze dell’ordine non fanno i salti di gioia per aiutare i contribuenti e rappresentano una casta. Comunque, prima che la poliziotta se ne andasse, le ho chiesto come fosse possibile che qualcuno fosse entrato in casa senza rompere una finestra o sfondare una porta. Lei mi ha chiesto di chiudere l’uscio, l’ha aperto infilando una carta di credito tra lo stipite e l’uscio in corrispondenza della serratura e mi ha confessato che tutti i B&B senza serrature blindate si aprono allo stesso modo. Si è congedata dicendomi che mi avrebbe fatto sapere e mi ha consigliato di chiamare il comando se avessi notato stranezze. Non avevo intenzione di farlo e pensavo che se avessi lasciato trascorrere abbastanza tempo, le acque si sarebbero calmate: non immaginavo che avrei rivisto i lampeggianti così presto.

Dopo che i vicini più curiosi mi hanno invaso la casa per vedere cosa ci fosse di terribile in cucina se ne sono andati inquieti come bambini dopo una storia di fantasmi. Avevo pensato di passare la notte nell’hotel che sta sopra il negozio di McCartney, ma non me la sentivo di abbandonare la casa dove ho passato metà della mia vita e affrontare tutti quelli che, dal giorno dopo, mi avrebbero preso per un pazzo che distrugge le porte e scappa dalla propria ombra.

Ha piovuto fino a sera e, con buona pace dei reumatismi, sono andato a letto a un orario impossibile per uno scozzese. Verso mezzanotte ho spento le luci della mia camera ma Nessie ha cominciato a ululare e ha fatto il giro della casa per abbaiare sotto la mia finestra. Dalla casa non proveniva alcun rumore, allora ho preso il coraggio a due mani e la spada, sono uscito, ho richiamato il cane e l’ho legato con la catena alla cuccia per impedire che mi tenesse sveglio (o che scappasse sotto la pioggia battente). Quando sono tornato a letto, Nessie abbaiava ancora, poi a un tratto ha cominciato a gagnolare e infine se ne è stata zitta. Mi sono sentito sollevato ma la notte è stata pervasa da terribili incubi (che purtroppo, o per fortuna, non ricordo).

La mattina del 4 maggio mi sono svegliato con la sirena di un’auto della polizia. L’agente che aveva effettuato il sopralluogo ieri mi ha sorpreso in vestaglia: aveva una faccia lunga, scura e mi avrebbe di sicuro interrogato se, prima che parlasse, non avessi visto una strisciata rossa sulle assi del pavimento del portico e fossi svenuto.

Quello che segue è il breve racconto che sono riuscito a mettere insieme nel pomeriggio, quando mi sono dimesso firmando il firmabile e ho interrogato i vicini e recuperato il verbale della polizia.

Stamattina Warren [il vicino con il B&B] ha visto il sangue e il cadavere sulla veranda e ha chiamato la polizia che, ovviamente, ha fatto qualche domanda ai miei vicini impiccioni [Donald abita in un quartiere dove vige la “Neighbourhood watch”: abitanti che controllano il vicinato e si rivolgono alla polizia qualora accadano fatti sospetti] e pare che quella strega indiana che ha sposato Jeffery abbia detto che ieri notte mi aggiravo in giardino con una spada, poco prima della morte di Nessie.

Ora starai pensando che quello che ti ho scritto è il delirio di un povero scozzese che sta varcando la soglia della follia. L’ho sospettato anch’io, a lungo seduto sul dondolo in veranda, quando guardavo i segni del sangue sulle assi e il posto dove è stata macellata Nessie: ho pensato che l’improvvisa solitudine dopo la moglie di Margareth mi avesse scosso al punto da procurarmi le allucinazioni e che una strana forma di sonnambulismo (mai avuta prima) avesse fatto il resto. Purtroppo le cose non stanno come immaginano la polizia e i miei vicini, e non dovrò attendere il responso dei medici che stanno analizzando le mie feci e le mie urine per capire che non sono stato io a macellare e divorare il mio cane.

Ho comprato della carne, bella, succosa, e ho riempito la ciotola che fu di Nessie, in salotto; ho rimediato anche delle tagliole, e le ho messe sulle soglie di tutte le camere, poi ho preso la spada e l’ho messa sulla scrivania, accanto al medaglione di bronzo e, per ingannare il tempo nell’attesa che il mio sgradito ospite avesse deciso di tornare, ho cominciato a scriverti la mail.

Ora vorrei dirti altro, vorrei davvero, lo giuro, ma è il 5 maggio da due minuti e sento le assi del soffitto scricchiolare. Mi perdonerai se interrompo il resoconto ma è giunto il momento di vendicare Nessie.


giovedì 6 maggio 2010

Mail da un amico

Martedì non sono andato a giocare a calcetto e, per la prima volta da anni, ho saltato l’appuntamento. Avevo da tradurre la mail di un amico. Vi parlerò di lui cercando di essere il più breve possibile perché ciò che mi preme pubblicare sono tre sue mail.
Donald è un uomo prossimo alla settantina, è alto, con una barba corta e sbiancata, il viso tondo, gli occhi chiari e il sorriso duro di uno scozzese. Abita a Fort William in una villetta in stile vittoriano adibita a B&B, affacciata su Lock Linnhe e separata dalla strada da un giardino d’erba soffice che taglia ogni fine settimana; il tetto della villetta è spiovente, in tegole brune, e gli abbaini bianchi sono ingentiliti da tende lilla. Dal bovindo del salotto di Donald c’è una vista spettacolare sul lago: ricordo che quando ho dormito a casa sua, all’inizio di ottobre di sette anni fa, ho fatto colazione con il sole che baciava le vette del fiordo, la luce che tagliava i brulli pendii e le nubi che scendevano sino a fondersi con le acque del Linnhe (chiamato “lago” ma in realtà un braccio di mare che si insinua tra le montagne). Io e Donald abbiamo stretto amicizia quella mattina, quando i miei compagni di viaggio, Lorenzo, Paolo e Sergio, erano ancora in camera a preparare le valige da caricare sulla macchina a noleggio; dopo aver assaggiato una fetta di pane tostato con l’aspra ma ottima marmellata d’arancia, mi sono affacciato alla cucina, gli ho tenuto compagnia e abbiamo chiacchierato del più e del meno.
L’energico scozzese friggeva la pancetta, strapazzava l’uovo, controllava la cottura delle salsicce e tostava altro pane, districandosi tra i fornelli come una ballerina su un palco. È stato paziente e si è fatto quattro risate con il mio inglese claudicante e maccheronico. Mi ha consigliato di visitare il castello (cosa che era pianificata prima del viaggio verso il più famoso e turistico Eilan Donan), anche se era poco più di un rudere ben tenuto e mi ha chiesto se avevamo assaggiato l’haggis e se la serata precedente fosse “andata bene”. Non ho capito che cosa intendesse con “bene”, ma quando gli ho detto che avevamo assaggiato quattro diverse birre (e un numero che non ricordavo bene di whisky), ha commentato ridendo che era “andata bene”.
Dopo la ghiotta full scottish breackfast abbiamo pagato Donald, io ho preso un biglietto da visita e gli ho dato il mio contatto e-mail. In questi anni ci siamo scritti parecchio, sono passato a trovarlo quando con Lorenzo sono tornato in Scozia e, di ritorno da Mallaig, sono transitato da Fort William (ormai quattro anni fa).
Le mail che mi ha scritto Donald sono arrivate con la stessa data e mi hanno fatto pensare a uno scherzo, poi mi ha preoccupato perché sono giorni che non replica alle mie risposte; tradurla per la pubblicazione è stato complesso, soprattutto per via della lunghezza e della mia conoscenza elementare dell’inglese ma, grazie al dizionario e a mia moglie che invece è bravissima, sono venuto a capo anche dei passaggi meno chiari. Gli errori di battitura sono miei e lo sono anche i corsivi (usati per rendere più letteraria la mail) e le parentesi quadre, usate come note.


[…] Non so perché lo racconto a te, forse perché ti diletti con la scrittura e potrai usare le mie disavventure come spunto. Il 27 aprile ha soggiornato a casa mia una coppia di turisti italiani, ho parlato loro di te ma non hanno letto i tuoi romanzi e non ti conoscono (mi sembra che il fantasy non vada molto da voi ma vi capisco, neppure a me entusiasma). Mi sono accadute cose strane, negli ultimi giorni, cose abbastanza inquietanti ma che troverai, come ho premesso, interessanti. Ma partiamo dal principio.

Dopo la visita della coppia di tuoi connazionali, l’idea del castello mi ha tormentato finché, a metà mattina, decisi di fare una passeggiata sino ai ruderi. Non ricordo quanto tempo sia passato dall’ultima volta che ho passeggiato per Fort William ma vedere le saracinesche abbassate e i cartelli con le cessate attività e le case in vendita mi ha svelato un volto della mia città che non vedevo da moltissimo tempo. Non ci sono più i turisti degli anni passati e quel negozietto specializzato in souvenir del mostro di Lock Ness ha gettato la spugna. McCartney [il proprietario del negozio di whisky] è l’unico che non ha risentito della crisi ma non sono bei momenti neppure per lui. Mio figlio (che lavora a Glasgow) dice che nemmeno lì tira una bella aria. Dopo aver sfilato i disoccupati in coda davanti all’ufficio di collocamento, mi sono avviato al castello e devo ammettere che, nonostante le pessime condizioni, suscita ancora qualche sana emozione. Ho attraversato l’improbabile corridoio creato dalle due file di tassi che lo fiancheggiano sulla sinistra, ripensando che, con ogni probabilità, siamo soltanto tu ed io a dotare di un senso e a riconoscere come un viale alberato.

Al castello non sono stati fatti nuovi lavori di ristrutturazione e le sue mura sbreccate sono cadenti e penose come le hai viste sette anni fa. Eppure c’era un bel sole e nonostante i secoli di abbandono e la sola pulizia del prato e la posa dei pannelli esplicativi, il castello mantiene la sua sobria dignità. Appena entrato mi sono sentito attratto dalla torre dove il tuo amico [Paolo] perse le chiavi dell’auto (ricordo la strizza che avevi quando arrivasti a chiedermi una pila), poi sono uscito dalla postierla per affacciarmi sul fiume. È lì che ho trovato quella cosa.

Credo di aver fatto una follia a portarla a casa: a parte sottrarre un oggetto di chiaro interesse storico da un sito del National Trust, temo che le disgrazie che mi sono accadute nei giorni che seguirono siano correlate a questo ritrovamento; si tratta di un disco di metallo (bronzo probabilmente) decorato con delle celtic knot [ho tenuto il termine usato da Donald, ndt.], quei motivi ricorrenti che a te piacciono tanto e dei quali, adesso, ho una fifa tremenda. Il disco spuntava appena dal terreno fangoso, nel punto dove un tempo restava l’approdo e dove negli anni passati hanno fatto degli scavi e deve essere venuto alla luce dopo l’ultima pioggia. Quando l’ho estratto dalla sua tomba di melma, ho sentito “il Grande Vecchio borbottare alle mie spalle” [e questa è stata la traduzione più difficile, che ho capito soltanto dopo. Ho quindi lasciato l’espressione usata da Donald; in sostanza voleva dire che dal Ben Nevis, la montagna più alta della Gran Bretagna che si trova a destra del fiume, giungeva un temporale] e la cosa non mi è piaciuta affatto. Ho bagnato il medaglione nell’acqua, l’ho ripulito e l’ho asciugato con un fazzoletto, provando uno strano pizzicore mentre lo lucidavo. Ho avuto la sensazione che si fosse stabilito un legame, tra me e l’oggetto, e la cosa mi ha dato dei brutti brividi. Ho infilato il medaglione in tasca e sono tornato a casa in fretta per evitare il temporale che si è scatenato e che mi ha costretto in casa tutto il giorno.

Al mio rientro, Nessie [è il suo cane, un collie: Donald gli ha dato il nome del mostro di Lock Ness, tra l’altro una storpiatura di Lassie] si è messa a ringhiare contro di me, cosa che non aveva mai fatto in quasi dieci anni, e l’ho lasciata fuori. Ho lasciato il medaglione sulla mia scrivania e ho passato una delle mie solite tristi giornate, peggiorata da un tempo infame anche per queste parti. Nel pomeriggio mi sono fossilizzato alla televisione, in salotto, ma ho gustato anche un bel documentario che probabilmente voi italiani non vedrete mai a causa della censura: indovina di chi parlava? […]

All’ora di cena le ho riempito la ciotola con il suo pastone ma quando sono uscito sulla veranda che copre l’ingresso, Nessie è sgusciata dentro, è corsa davanti al mio studio e si è messa ad abbaiare come fosse stata indemoniata. Non sono riuscito a tranquillizzarla e ho persino faticato a trascinarla fuori. Ha rifiutato il cibo e si è messa a ringhiare verso la casa, così l’ho lasciata senza cena, sotto il portico. Stava ancora diluviando, ma la sua cuccia è ben riparata e lei [Nessie] non teme i tuoni.

Mi sono coricato verso le venti senza dare peso alle stranezze del cane ma ho passato una notte tormentata. Mi sono svegliato dal sonno un numero imprecisato di volte, mi rigiravo ma sentivo un lontano trepestio: mi sembrava che Nessie si muovesse per casa e alla fine ho sentito che finalmente mangiava e che vuotava la scodella con l’acqua. Nel dormiveglia ho sentito scricchiolare le scale e mi sono preoccupato perché il cane non è abituato a salire le scale. Mi era venuta l’idea di controllare cosa stesse combinando ma poi mi sono rigirato nel letto e ho lasciato perdere. Ripenso al fatto che forse ho fatto bene a non scoprire cosa stesse accadendo.

Già, lo avrai capito anche tu, ma io ho dovuto attendere il mattino successivo, quando ho aperto la porta di casa, per ricordarmene: Nessie aveva dormito sotto il portico. Eppure il suo pastone era finito, e la scodella con l’acqua era vuota. La porta del mio studio era aperta mentre ricordavo di averla lasciata chiusa e in un cassetto della scrivania (che non ricordavo di aver lasciato socchiuso) ho ritrovato quel paio di occhiali tondi cui tenevo tanto [me ne ha parlato in una vecchia mail] e che credevo scomparsi. Ora potrai credermi pazzo ma sono assolutamente convinto che la porta del mio studio e il cassetto fossero chiusi, che Nessie non sia potuta entrare e che quei dannati occhiali non fossero lì.

Ho passato la mattina del 28 a rivoltare la casa come un calzino ma senza sapere bene cosa stessi cercando. Nessie mi ha seguito e si è messa a ringhiare soltanto quando sono entrato nello studio; ho chiuso la porta ma ha cominciato ad abbaiare e a grattare con le unghie contro l’uscio. Le ho urlato di stare buona ma non mi dava ascolto, così le ho messo un guinzaglio e l’ho portata fuori.

Il cielo turchese delle highland era chiazzato da nubi grasse e cangianti e puzzava di pioggia.

Ho fatto una lunga passeggiata e sono rientrato che era ormai sera. Di clienti non ce ne era nemmeno l’ombra e anche il mio vicino (che ha una casa molto più accogliente della mia) non vede un turista da giorni. Mi sono messo il cuore in pace e ho lasciato ancora una volta Nessie, inquieta più che mani, sotto il portico, con le sue ciotole.

La seconda notte dopo il ritrovamento del monile è stata intensa. A un tratto mi hanno svegliato gli ululati di Nessie, poi ha smesso e ho ripreso sonno, poi ho le scale scricchiolare, le porte cigolare e una addirittura sbattere. Mi sono alzato, terrorizzato dall’idea che potessero essere i ladri e ho fatto un giro della casa, dopo aver acceso le luci ed essermi armato con la spada che ho preso nel negozio di souvenir del castello di Stirling e che tenevo sotto il letto. Non ho trovato tracce di alcun intruso e neppure segni di infrazioni. Ti assicuro che ho avuto paura, ormai ho una certa età e il fatto che molti giovani siano senza stipendio non giova alla fiducia che ripongo nel prossimo. Sono tornato a letto, ho chiuso a chiave la porta della camera ma sono stato disturbato da altri rumori sospetti ai quali non ho dato peso: ero nel dormiveglia e devo aver pensato ad allucinazioni, oppure ero troppo impaurito per controllare.

La mattina successiva ho trovato le scatole dei cereali completamente vuote [Donald teneva diverse scatole di cereali in salotto, accanto al tavolo dove serviva le colazioni agli ospiti del B&B] e la cosa mi ha preoccupato davvero. Ma avevo deciso di non dire nulla a nessuno: pensavo che dentro casa ci fosse un roditore, e la cosa poteva spiegare molto di quanto era accaduto.

Ho passato mezza giornata in giro per la città a cercare trappole per topi e l’altra metà a sistemarle nei punti cruciali della casa. Prima di andare a dormire ho chiuso a chiave la porta della cucina, dove avevo ammucchiato anche i cereali e i pacchi che tenevo nel box.

[Questa era la seconda mail] [...] La notte è stata travagliata da un incubo di cui ricordo soltanto che rasentava la follia. Sono stato svegliato come al solito da strani rumori e dal cigolio di una porta ma ancora una volta non ho osato uscire dalla mia camera. Stamattina ho trovato alcune scatole di biscotti aperti e il succo d’arancia finito. Dimmi, tu conosci dei topi capaci di girare la chiave nella toppa per entrare in cucina? Io no. E non voglio conoscerli.

Durante la giornata ne sono successe di tutti i colori. Ieri notte avevo chiuso ancora a chiave la cucina ma avevo tenuto la chiave con me; i rumori sono aumentati e così i latrati inquietanti di Nessie. Verso le tre sono saltato sul letto con tutti i peli ritti per la paura: qualcuno o qualcosa cercava di abbattere la porta della cucina. Sono stato fuori casa tutto il giorno: al comando di polizia ho chiesto se ci fossero denunce di furti nel mio quartiere ma non se sono state fatte. Ho fatto la spesa al centro commerciale e al mio ritorno temevo di dover tornare a dormire. Ho addirittura pensato di chiamare un amico a passare la notte da me ma non ho avuto il coraggio di scoprire di avere allucinazioni o di essere impazzito.

[...] Nelle due notti successive i rumori dell’assedio si sono ripetuti e io ti giuro che quando ieri mi sono svegliato per controllare, non ho sorpreso armigeri inglesi e non ho trovato arieti in giro per la casa [credo che Donald abbia usato uno sprezzante paragone oppure un modo di dire delle sue zone], il che mi ha preoccupato più che trovarne, poiché dopo un poco i rumori sono ricominciati. Ma la cosa più tremenda che ho da raccontarti non è l’improvvisa possessione della mia casa da parte di fantasmi affamati perché di spettri non si tratta.

[Questa mail era datata 3 maggio] […] Stamattina, appena svegliato dopo una notte di nuovi assedi culminati col rumore raccapricciante di qualcosa che grattava (e che ho attribuito erroneamente a Nessie che si appoggiava alla porta per entrare in casa), ho perso i sensi per molto tempo. Quando mi sono rialzato avevo un bernoccolo e c’è mancato davvero poco che svenissi una seconda volta dopo aver visto la porta della cucina. Fuori Nessie ululava e si era scatenato uno dei più brutti temporali che Fort William ricordi. Sono corso nel mio studio, mi sono chiuso dentro, ho liberato la scrivania spostando i libri, il medaglione e le scartoffie e ho aperto il portatile per fare ciò che forse avrei dovuto fare prima. Ho scritto questa terza mail con le mani che tremavano, correggendola e ricorreggendola per darti più particolari possibili.

Sulla porta di legno della cucina c’era una frase, scritta in basso, come da un bambino, ma era incisa da artigli che non saprei attribuire ad alcun essere vivente, e non era inglese la lingua, era gaelico. La frase diceva più o meno, “ora voglio sangue”.