mercoledì 26 maggio 2010

Lettera da un amico - parte III

[…] mi perdonerai il lungo silenzio ma nelle Regie Galere di Sua Maestà non hanno ancora attivato il wi-fi. Hai letto bene caro amico, è lì che ho passato le ultime due settimane. Il 7 maggio mi hanno messo in gattabuia e il giorno successivo mi hanno trasferito a Glasgow, nel carcere psichiatrico. Come avrai intuito leggendo la presente, o hanno attivato il wi-fi, oppure mi hanno rilasciato. Per mia fortuna è la seconda.

Facciamo un salto nel passato e torniamo al 5 maggio e allo scricchiolio delle assi, al primo piano: in quel frangente ho smesso di scriverti, ho preso la spada e sono uscito per vendicare Nessie. Mi sono mosso nel silenzio più totale, senza accendere la luce, e solo adesso mi rendo conto di come sia stato ingenuo perché il mio sgradito ospite non ha mai avuto bisogno della luce per agire. Quando sono arrivato di fronte alla scala e l’ho sentita scricchiolare, ho atteso perché il mio sgradito ospite stava scendendo.

Tremavo, anzi, me la stavo proprio facendo sotto.

I gradini cigolavano uno a uno e sentivo i passi che indugiavano sulla moquette verde; a ogni passo del mio sgradito ospite cambiavo impugnatura alla spada, che pareva animata di vita propria. Quando l’intruso [Donald ha sempre usato “it” ma ho preferito sostituire il sostantivo con un altro più appropriato] arrivò al pianerottolo avrei dovuto trovarmelo davanti ma evidentemente si fermò, perché non sentii scricchiolii per secondi interminabili. Poi il cigolio riprese ma la penombra lo nascondeva e il mio sgradito ospite deve aver fatto tre o quattro gradini quando decisi di accendere la luce per sfidarlo.

In cuor mio speravo che un disgraziato si introducesse in casa la notte e il mio dito rimase indeciso sull’interruttore mentre pensavo che avrei anche potuto scoprire un mostro. Quando la luce irrorò il corridoio, sulle scale non c’era nulla. O meglio, c’era, ma non potevo vederlo. C’era, perché ho percepito i suoi passi che si avvicinavano e poi ho sentito il suo odore. Deve essere stato quello che mi ha spinto ad attaccare. Deve essere stata la paura.

Dici di essere uno scrittore: trova un modo migliore per dire che l’intruso puzzava di melma e morte e che il suo fetore era antico. Era tipo l’afrore dei cimiteri quando i fuochi fatui si destano e danzano, era un odore di morte viscida, umida e lontana generazioni.

La spada si è incastrata nei pilastri della balaustra ma non l’ho colpito. L’odore mi è sfilato accanto senza che potessi far nulla. Ho lasciato la spada mentre quella cosa si avvicinava alle ciotole e sono rimasto pietrificato mentre il rumore di mascelle che masticavano mi ha terrorizzato al punto da farmi perdere molti dei pochi anni di vita che mi rimangono. Poi ho sentito lappare dalla scodella dell’acqua e dev’essere stato sul rutto che ne è seguito che sono svenuto.

Mi sono destato all’alba, ho spento la luce delle scale, ho recuperato la spada e ho cercato in casa tracce dell’intruso. Non ho trovato nulla, niente di niente. In compenso i pavimenti erano puliti, la cucina riordinata e in sala c’era un profumo che non sentivo da quando mia moglie faceva le pulizie. Avrei dovuto scriverti quella sera ma ho preferito attendere un giorno ancora, e così la notte tra il 5 e il 6 maggio ho posizionato altro cibo e acqua nelle ciotole che furono di Nessie e ho aspettato. L’attesa è stata tanto lunga che il sonno ha preso il sopravvento e mi sono svegliato soltanto a notte inoltrata, e per via delle sirene dell’ambulanza e della polizia che chiassavano due case dietro la mia.

Non era ancora giunta mattina quando sono stato interrogato dalla polizia; lo hanno chiamato “colloquio informale” [le virgolette sono di Donald] e mi hanno chiesto dove fossi stato quella notte, che cosa avessi fatto e se avessi notato qualcosa di strano nel vicinato. Ho detto la verità, ovvero che ero in casa a riposare, da solo, come sempre. I poliziotti mi notificarono che non avevo un alibi per la morte della strega indiana.

Ricordi la moglie di Jeffery, quella che testimoniò di avermi visto uscire armato quando l’intruso ha ucciso Nessie? A stare alle dichiarazioni di Jeffery, sua moglie è stata ammazzata mentre si era alzata per controllare un rumore in giardino. Ammazzata tuttavia non è la parola migliore per descrivere ciò che le è accaduto. E non lo farò, ovvero non racconterò ciò che le è stato fatto: sappi soltanto che la morte di Nessie dev’essere stata meno dolorosa.

Ci ho ripensato molto, mentre preparavo del macinato fresco per il mio sgradito ospite, e temevo che la polizia sospettasse di me. Ora mi è evidente come l’asettica poliziotta bionda credesse che fossi stato io a mangiare metà della moglie di Jefferey. E a tratti anch’io sospetto di me stesso: ho il terrore che una maledizione mi abbia colpito, e che la mia anima vaghi altrove mentre il mio corpo compie mostruosità.

In ogni modo, da quando l’intruso ha fatto fuori quell’impicciona antipatica, mi risulta un poco più simpatico. La notte dopo l’omicidio avevo preso dell’ottima carne per lui e sperato che sistemasse il garage, per l’occasione avevo spostato l’auto nel vialetto.

[…] Il sette mattina quattro amici della biondina hanno suonato al campanello, sono entrati gentilmente in casa e mi hanno ammanettato. In centrale la biondina ha formulato l’accusa di omicidio della strega indiana e mi hanno fornito un avvocato d’ufficio per assistermi durante l’interrogatorio.

Ho raccontato tutto quello che mi era successo e forse è questo il motivo per il quale mi hanno internato a Glasgow. Ho passato due settimane di inferno, non sono nemmeno riuscito a parlare o a vedere mio figlio. Mi hanno somministrato intrugli indegni di qualsiasi dittatura e mi hanno sottoposto a una serie esami che terrò per me in virtù del (poco) amore che nutro ancora verso il mio paese (in ogni modo ne sono uscito con le mie gambe, non come in certe prigioni del vostro paese). Durante il mio soggiorno forzato a Glasgow, ho avuto l’occasione di parlare con i preti di ogni religione, con psicologi, con cialtroni e con millantatori che vantavano addirittura di aiutarmi con le loro arti magiche (credo sia stato tutto un trucco per capire qualcosa sulla mia sanità mentale). L’ultimo che ha esaminato il mio caso era una tizio di colore con la testa rasata e gli occhialini ovali, simili ai tuoi: abbiamo fatto una bella chiacchierata la sera prima che mi rilasciassero. Era un tipo in gamba, uno con le palle, ha fatto un’analisi scientifica dei fatti che mi ha ricordato certe serie televisive […], hai presente? Ebbene, era riuscito a convincermi che fossi un assassino: sosteneva che avessi creato una sorta di simulacro sul quale avrei proiettato le mie paure e scaricato la mia rabbia repressa, negandola e trasferendola su uno sgradito ospite che soltanto la mia mente era in grado di vedere. Non ha usato proprio le parole con cui ti ho descritto la sua diagnosi, ma ti ripeto che è stato tanto convincente da farmi restare sveglio una notte intera a piangere per le mostruosità che avevo commesso: ti giuro che se avessi avuto qualcosa, qualsiasi cosa a mia disposizione, l’avrei usata per suicidarmi.

La mattina del quattordicesimo giorno di detenzione mio figlio è venuto a prendermi dopo che mi hanno rilasciato, mi ha riportato a Fort William ed è tornato a Glasgow per passare il week-end con la fidanzata. Ti chiederai come sia possibile un epilogo simile: ebbene, a quanto ho saputo, la notte del 20 maggio, il mio simulacro, o meglio l’intruso, si sarebbe intrufolato in casa della biondina, l’avrebbe divorata completamente e avrebbe lasciato le ossa ammucchiate dentro la tazza del cesso.

Ho scritto questo resoconto non appena ho potuto ma ora dovrai perdonarmi perché i negozi chiuderanno a breve e devo comprare un bel taglio di manzo per evitare che il mio sgradito ospite torni a sfamarsi a modo suo.

Nessun commento: